Concetto Vecchio, quirinalista di Repubblica, scava, annoda, mette assieme fatti, luoghi e persone per narrare una morte irrisolta
Mario Frongia
Si naviga in un’oscurità pungente, precisa. Condita da fatti, fonti, ricerche. Buon giornalismo, oggi per ieri e viceversa. Utile a scavare e riandare su GiacomoMatteotti e la sua uccisione. Uno dei primi ciak-si gira del regime fascista. Concetto Vecchio non cerca scorciatoie. Prende per mano con cura una delle menti più fervide e antagoniste. Narra una morte orribile e vigliacca. Fotografa il Polesine. Tra miserie e nebbia. Con un filo di mestizia che affonda nella notte dei tempi. E ci racconta l’omicidio “trauma”. L’avvio del Ventennio, tarantola che ingoia onore, bugie, dignità. “Io vi accuso - Giacomo Matteotti e noi”, non lascia scampo. Lo si legge veloci, 228 pagine, Utet, prima edizione polverizzata. Obbliga a prendere posizione. O di là, o di qua. Pochi margini per manovre demagogiche e comode ambiguità. Passato e presente, visti tempi ed esempi del potere attuale. L’autore conduce alla casa natale del socialista anomalo. Fratta, la famiglia, le scuole, il cimitero. Villamarzana, dove è stato sindaco. Pare quasi di sentire il rimestio delle posate e quell’aria spessa, gonfia di incognite e dubbi. Concetto Vecchio, quirinalista di Repubblica, indica luoghi e persone. Mette in fila testimonianze, carte, interventi parlamentari. Definisce slanci e perimetro dell’illuminato Matteotti. Che piace a Filippo Turati ma è scomodo a tanti. Nel rendergli complicata l’ascesa politica, storica e sociale, ci sarà anche il fuoco amico. “Si diverte a sfidare, e volere, l’impopolarità”. Tre anni di feroce servizio militare in Sicilia, la laurea in Giurisprudenza, i viaggi europei, le litigate in consiglio provinciale, il confino. Sono anche gli anni dell’amore per Velia Titta, toni intensi, quasi allenati al peggio. Le nozze a Roma in Campidoglio, i figli Giancarlo, Matteo e Isabella, un’irrequietezza pulsante. Intorno, i vagiti, e qualcosa di più, del Duce e dei suoi. Concetto Vecchio leva il velo all’Italia che diventa dittatura, violenta e spavalda. Benito Mussolini è nato nel 1883, due anni prima di Matteotti. Il Paese è povero, frustrato, indeciso. Una distesa in cui curiosità e speculazione intellettuale del figlio di Gerolamo e Isabella, entrano a piedi uniti. Senza riserve. Le diseguaglianze, gli ultimi, i figli di un Dio minore, sono al centro del Matteotti politico, visionario e realista al tempo stesso.
La giustizia riparatrice. L’autore indaga, approfondisce con chi ne ha scritto e parlato. Ci sono le lettere di Giacomo e Velia, raccolte da Stefano Caretti. Cinema, Franco Nero con Florestano Vancini nel ‘72, e teatro, Paolo Grassi e Giorgio Strehler. Le parole, tra gli altri, di Giorgio Bocca e Leo Longanesi. La proposta di Liliana Segre per il centenario dalla morte e l’incontro di Vecchio con la nipote, Laura Matteotti. Cronaca pura e maledetta. Tutt’ora indigesta. Pedinamenti, minacce, angherie: per Velia è l’inferno. Amerigo Dumini e un drappello di sgherri sul Lungotevere uccidono Giacomo Matteotti. È il 10 giugno 1924. Ha 39 anni. Gli assassini parcheggiano la Lancia K nera al Viminale. “La storia siamo noi”, canta Francesco de Gregori. Quella narrata da Concetto Vecchio ha una frase cult: “Senza pace attende il giorno della giustizia riparatrice”. Nel 1950 prefetto e questore di Rovigo l’hanno cassata. Solo nel 2011 è stata aggiunta alla lapide in piazza a Fratta Polesine. Ricorda Giacomo Matteotti.
Che ha messo e mette paura.